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POEMI
DEL RISORGIMENTO
INNO A ROMA
INNO A TORINO
[1910-1912]
EGREGIAS ANIMASQUAE SANGUINE NOBIS
HANC PATRIAM PEPERERE SUODECORATE SUPREMIS
MUNERIBUS.
NOTA PRELIMINARE
Avrei voluto tenere esclusivamente per me questo inizio dilavoroe seguitare da sola su esso il mio segreto pianto. Ma ci sono dei buoniamici che aspettanoe aspettano perché avevano avuto qualche promessa. Horisoluto perciò di pubblicare quello che c'ècome ècon la coscienza dicompiere un doveredi pagaredirei quasiun debito d'onore contratto da Lui.
Dopo aver molto cercato e studiato sui manoscritti non hopotuto mettere insieme se non questi pochi poemialcuni incompiuti e alcunicompiuti sìma non limati. Le carte sono piene di appunti e di orditure. PerLui era questione di un po' di tempolibero e tranquillo. Maquando speravaarrivato il momentoquella manopronta e sicuras'è fermata. Tutti queifogliettiignari di ciò che è accadutosembrano in attesa! Qui c'è ilprogramma per il tal mesepiù là per la settimanaspesso spesso per ilgiorno. Programmi che quasi mai gli era dato di eseguire. Perché... ma èinutile che ora io mi metta a enumerare i perché. Solo chi avesse tenuto un po'dietro a ciò che produceva e che appariva agli occhi di tuttie agliinnumerevoli fuor d'opera a cui lo costringeva la sua grande condiscendenzapotrebbe farsi un concetto di quanto vorrei dire e non dico. Il tempo non erasuo: il no non sapeva dirlo.
Mi proverò a dare in poche parole un'idea de' suoiintendimenti intorno a questo lavoroa cui attendeva con amore e fedee chedoveva esserecome Egli dicevail suo supremo tributo alla Patriae agli Eroie ai Martiri del nostro Risorgimento. Proverò.
In tre volumi Egli avrebbe costretta l'opera sua. Nel primosi doveva arrivare fino al '48: dall'ultimo imperatore latino ai Bandiera.Mancanoquindisecondo le sue noteIl tricoloreI templarialtriPoemi mazzinianii poemi su Carlo Albertoquasi tutto il ciclo di Garibaldiin Americache doveva conchiudersi col ritorno di lui in Italia con Anita eil piccolo Menotti; infine i più vibranti di passione: Nello Spielberg eI fratelli Bandiera. Via viain mezzo ai poemi epici di vari metridovevanoattraversare i volumicon volo lucido e rapidodei brevi poemetti lirici sulgenere di Garibaldi vecchio a Caprera. Credoanziche questogiàprontomentre il suo posto non l'avrebbe trovato se non alla fine dell'operasia stato eseguito quasi per prova o per modello.
Terminato l'Inno a TorinoEgli intendeva subitoproseguire ordinatamente. Aveva già avuti in bozze e corretti una prima volta iprimi due poemi: Napoleone e Il Re dei carbonari. Stava eseguendoil terzo. Un giornouno dogli ultimi che si levò di lettosi recò mestamentenello studio edopo aver guardato i suoi libri e rilette alcune sue cartesudi un foglio bianco scrisse con mano ancora sicura il titolo del poema chel'attendeva:
22 marzo 1912 - Il tricolore!
e nient'altro! Lì presso in una cartellina si leggevano iquattro primi versi e gli appunti. Il giorno dopo non si levò! Non credo chepossa dispiacere di conoscere qualcuno di quei palpiti che gli vibravano incuore anche in mezzo alle sue crudeli sofferenze.
IL TRICOLORE
Nella città che è in mezzo a quattro strade
s'odono molti plaustri cigolare.
Mugliano bovisquillano campane
brillano spadeluccicano lancie.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
«Ma non sono le campane e i bovi dei carrocci... Un nuovogiuramento è stretto. Non a Pontidanon nei boschi... Nessun connubio conl'imperatore. Nessun esercito rimarrà o verrà in Italia... La legache stanella sua città di paglia tra la Bormida e il Tanaroha inalzata la suacroce... Dove sei imperatore dalla Barba Rossa? Ecco la nuova bandiera...Salutatelao trombeo lancieo bovio plaustri! Ella ha i colori nuovi... Otricolore d'Italia! sorto tra il nembotra i primi tuoni di primaverainattesa del redel primo re d'Italia!... Non ha più i colori del fuoco spentodel fuoco vivodel fuoco operante... È un'altra. O pianura del Po! o nevedell'Alpi! o rosso dei vulcani! o veste di Beatrice! Per te quanto si morrà!quanti saranno avvolti nelle tue pieghe! Quanti ti avranno sul loro feretro!...In quante battaglie... in quante tempeste!... Non lasciatevela prendere...stracciatela piuttosto... ponetevela sul pettoinabissatevi con lei nei gorghidel mare! - O sacro vessillo! ora deve venire il tuo re. Avanti contro glistranieri! contro i crocifissori di Prometeo. - O cittànata nell'AprilecomeRoma! asilo di esulicome Roma! o nata di profughicome Roma! o subito inguerracome Roma! Non è dei boschi di carbone la bandiera che tu inalziessaviene da più profonde lontananze...»
Ecosì preparatoquanto ce n'è del lavoro! «Possibilesoleva direche non debba aver mai un po' d'agio per dedicarmi alla poesia? Nesono così pieno! ho ancora tutto da fare!» Non tuttoma tanto sì. E questotanto doveva dar vita a' suoi sogni d'artistaconfortare le grandi ombreincitare i giovanie mostrare all'Italia la sua devozione.
Ho voluto accogliere in questo volumesebbene non appartengaai Poemi del Risorgimentoanche la versione italiana dell'Inno a Roma edell'Inno a Torinoperché l'uno e l'altro furono da Lui composti inlatino e poi tradotti in italiano negli ultimi mesi di sua vita per onorare eglorificare la sua diletta Italia.
I volumi che avrebbero seguito questo primo (rimasto purtroppo così incompleto) non è difficile imaginare che cosa dovevano contenere.Dal '48 in poi ce n'è della poesia da estrarre dagli avvenimenti della nostrapatria! Egli l'aveva vista tutta e si riprometteva di farla vedere anche a noi.
Ed ora? Ora a me non resta che concludere con le parolech'Egli prepose al principio del primo poemae associare al suo nome quello delpadre suoch'Egli voleva tener vivo nei cuori perché vittima invendicata.
«X agosto 191O - Poemi del Risorgimento.
Si comincia il poema a onore e gloria feconda d'Italiadiquell'Italia ch'Egli amò così ardentemente nei "tempi solenni" e chenon diede pure uno sguardo di pietà a lui insanguinato e mortoné ai figli diluisoli e mendichi.
Ebbene?
»Perché siano chiare queste parole occorre leggere laseguente lettera:
Repubblica Romana
COMANDO CIVICO
DEL
COMUNE DI S. MAURO
Nr- 34
Cittadino Governatore
A pronto riscontro del vostro dispaccio d'oggi N. 573colquale mi date comunicazione di altro dispaccio del Cittadino Presiderisguardante l'arruolamento di quel maggior numero di militi di questa CompagniaNazionale che volonterosi volessero disporsi a marciare all'occorrenza; visignifico che io porrò in opera ogni premura e fatica per giungere allo scopo;ma è duopo ch'io faccia alcune riflessioni che desidero siano a cognizione dellodato Preside.
E primamente vi faccio conoscereche essendo questacompagnia composta nella maggior parte di campagnuolisarà difficile poterlipersuadere ad intraprendere una marcia; d'altronde essendo questo paese in mezzoalla campagnala qualecome è ben notoè assai avversa all'attuale governoper le perfide insinuazioni di malevoli; è necessario sopratutto l'attivitàdella Guardia Nazionalemassime in questi tempi solennionde impedirereazioni e disordiniche purtroppo potrebbero suscitarsi.
Il numero dei militisu cui possa contarsi per impedire ereprimere una reazionesi riduce a pocoe quindi di questi non sarebbeprudenza a privarsene; poiché lasciando il paese a difesa degli altrinonsarebbe difficile si mescolassero coi reazionaried ai medesimi cedessero learmi come amici.
Ioripetofarò dal canto mio quanto mi sarà possibileedassicurate il Preside di tutta la mia energia.
Salute e fratellanza.
S. Mauro3 maggio 1849 | Il Capitano Comandante Ruggero Pascoli |
Perdonino i buoni amici e tutti i buoniche leggerannol'insufficienza mia. E sopra tutti mi perdoni il dolce spiritoche mi è sempreaccantose non so corrispondere degnamente alla sua fiducia. Ci metto tutta lamia buona volontà.
Maria Pascoli
Castelvecchio30 aprile I913.
I
Ora egli è solotra le lontane acque
sul borro solo. A che vegliate in armi
guardando lui dal Bosco della morte?
Veglia a' suoi piè l'Oceanolo guarda
l'Oceano insonne che notturno canta
per non dormireed asseconda l'onde
alterneeterne. E l'uomo solo ascolta
il canto e quindi il respirare uguale
del suo custode steso sulla soglia
rottae ne sente l'umido alito acre
dalla invisibile isolafumosa
d'accavallate nubi oscure.
Era per lui quell'isola da quando.
spuntò sull'ampio ondeggiamento azzurro
unica. E il grande Spirito che ancora
irrequieto errava làsulle acque
vi s'avventòstette anelando in guato
cinto di nubitra le bronzee rupi.
Esso attendeva l'Unico: chi fosse
per direnate non trovando ancora
le sue parole- Iocome Diosono io -
l'uomo promesso da chedopo un grande
scheggiar di selciuscì dall'antro il bruto
brandendo la sua prima scure.
Italia a lui fu madre. Essa lo fece
del suo granito dentro i suoi vulcani.
Per tre millenni lo portò nel grembo.
L'anime in una ella fondea dei grandi
Cesariin una Parte le sue Parti
crudeliil ferro degli Sforza e il ferro
dei Buonarrotitutte l'arti e l'armi.
Poipieni i tempiben temprata al gelo
l'animain sella lo levògli pose
le dee Fortuna e Guerra alle due staffe
gli pose il sognoin mezzo al cuordi Dante
e grave gli mormorò: Va!
II
La nera Terra lo attendeatremando
già del portento. Ora credé vederlo
uscir col capo di sparvier da templi
invasi d'ombra e di pensose sfingi
ora passar con mille carri d'oro
con suvvi gli archi di barbari arcieri
ora con infiniti dromedari
rigar le solitudini sabbiose
fulve di soleora venir tra un muglio
di bovi immensoqual se al mondo un solo
gran mandriano ormai parasse tutti
gli armenti e tutti gli armentari.
Non era ancora. O forse era il divino
efebo cinto d'ellera che apparve
novello eroe con la peliade lancia
or con la cetra or con la face in mano.
E no. Forse il Quirite era incedente
al misurato passo dei triari
e poi sedente sull'eburnea sella
imperïoso pacificatore.
Ma no. Non era il re chiomato assiso
appiè dell'olmol'orifiamma al vento
e giganteschi attorno con le spade
ignude i dodici suoi pari.
Ma quando uscì dall'isola selvaggia
piccoloe parve scialbo e glabro in sella;
con gli occhi vuotivitreicoi lunghi
capelli liscisimile a nessuno;
ed ella udì che ad ogni sosta ansante
del suo cavallo rimbombava il tuono:
- Sei tu - gridò la nera Terra - alfine!
Dimmi il tuo nome! - Ed ella intese il nome
dove la fiera si mesceva al dio
donde sonava l'inno dell'eterna
cetra del cielo puro ed il ruggito
della deserta immensità.
III
Ora egli è avvinto all'isola lontana
che sola spunta di tra le grandi acque;
chesola tra la serenità calma
è di perpetue nuvole involuta;
come se imperversasse una tempesta
làvorticosainterminabilmente;
una tempesta pallida e segreta
incominciata all'albeggiar del mondo.
Tutte le nubi erranti per quel cielo
dagli alisei sono paratea branchi
làcon assidui sibilie son chiuse
tra mura d'invarcabile aria.
Sbalzano surotolano le nubi
s'urtanovanno per fuggir dal chiuso
calano per vanire entro i burroni
s'alzano per oltrepassar li scogli
strisciano a terra: invanoperché il vento
pur le riprende; ereducile vane
lagrime loro versano sul caldo
suolo che fuma. Tornano alle nubi
le loro vane lagrimeche ancora
piovono in terra. E sempre in volta il vento
con lunghi assidui sibili minaccia
nella penombra solitaria.
È l'invisibile isola dei morti
tutta fiorita d'aridi elicrisi.
Né luce v'è né buio. Una muffita
nebbia nasconde il popolo dei sogni.
Vi sono sterili albericurvati
come a fuggire; ma li tiene il suolo
disvincolanti. Fuggono le navi
a vele apertetutte per un rombo.
L'hanno veduto. Tra lo stridìo lieve
come d'uccellidelle pallide ombre
volgendo gli occhi in giroil suo fantasma
nel mezzonudo l'arcosta.
IV
Ma dall'ignoto Spirito sferzate
corrono a lui le riluttanti nubi
strisciano appiè di luisorgono a un tratto
lo velanolo celano. È sparito
sotto la pioggia fumidasparito
nel grembo grigio. Né baleno guizza
mai da due nubi frante che divida
l'oscurità. Niuno lo veda! Niuno
veda la fronte cupaniuno veda
quegli occhi tristii tristi occhi veglianti
come due tristi uccelli della notte
sul suo terribile sorriso.
Non lampo mai; né mai rimbomba il tuono
seguace; ch'altri non lo creda il tuono
della sua secca chioccia bronzea voce
usa a guattire sola tra il silenzio
di cupi pallidi uomini e il sommesso
loro anelare; ch'altri mai non pensi
che dalla tacita isola dei morti
d'oltre l'Oceano e il popolo dei sogni
sia quella voce che di tra l'eterna
penombrasopra il sonno delle genti
sul mondo forse immemorepassando
scoppi e si franga all'improvviso
e chiami e scuotae susciti nel mondo
squilli di tromberulli di tamburi
scroscio di marciesuon di ferrostrido
di ruoteémpito e ringhio di cavalli
polvere e fumoe grandinar di palle
scintillar d'armie rombo di cannoni
assaltifughemura umanestagni
di sangue umano: ululi d'odiostrazi
di piantoun pianto immensoun campo immenso
che piangetutto un piangere di madri;
e fuocosangueorroremorte; e un grido
solo: L'Imperatore è là!
V
Or tra gli smerghi e l'aquile marine
è làcelato; e raro e breve il sole
s'affaccia e gettaper vederloun raggio:
ché brama il sole di veder quel pari
a sé terrestre; ché anche il sole è solo.
Guardae si cela. E non appena il giorno
egli ha compiutosubito nel buio
precipitané roseo s'indugia
nella soave ora crepuscolare
a consolare il cielo d'una blanda
chiarità ampia che si muta in ombra
cosìpiù dolce che la luce.
No: ch'eglicome il simile terrestre
precipita. Se non è dìsia notte.
E rare a notte vengono le stelle
verginivengono all'Ignoto ignote
la Croce insieme e la Corona australi
per veder l'uomo che nella sua mano
tenne il timone dell'opaca Terra
e volle unico reggerla sul mare
del rezzo eterno. Cercano le stelle
quell'Orïone cacciator di fiere
armato d'orocercano quel nuovo
divino pùgile Polluce.
Avea lottatoil Pùgilecon Dio!
Avea ghermito una sua stella a Dio!
Volea rapire una sua stella errante!
la nera Terra! E l'altre stelle erranti
già ne' lor pii crepuscoli il pianeta
vedeantremandoprigionier d'un uomo;
vedeano rosso al placido orizzonte
spuntare il globovario di grandi ombre
soffuso forseogni dì piùdi sangue;
nel cielo ancora ma non più del cielo.
Empia e sicura al non tuo cieloo Terra
montavi lentamente su.
VI
L'anima egli erae tutto il mondoil bruto.
Soltanto braccia egli chiedevae l'ebbe.
Fu come il Brahmaa cui sporgean dai lati
mille migliaia di guizzanti braccia
milledi maniognuna d'esse un ferro.
Né città v'era né deserto al mondo
né tempio augustoné sublime reggia
né foro né castello né ruina;
o dove nasce o dove cade il sole
a suda nord; sopra la cui parete
non apparisse; alfine un giornol'ombra
adunca d'una sua gran mano.
Egli era dio d'un proprio suo diviso
regno di dio. Per tutto egli erae tutto.
Ne ripetevapaventandoil nome
l'eco dei monti e la marea dei mari.
Empiano i suoi migranti padiglioni
le nivee steppe e le assolate arene.
Gittava al Tutto egli le braccia armate
calmodal pernoe tra lo scatto enorme
tra l'infinito riscintillamento
delle sue bracciasi vedea quel mezzo
Sorriso breve cui covava eterna
la sua tristezza di Titano.
Ed egli volle un vicedio ch'eterno
per il dio tristesorridesse al mondo.
Vollee compose un idolo fasciato
di bianca setarilucente d'oro
aspro di gemmegli occhi piile labbra
sottiliaperte sempre al dolce assenso.
E lo vegliavaché dovea placare
gli uomini a Diocon la gemmata mano
benedicentee gli uomini pregare
per l'immortale. Ond'egli cupo in vista
mostrava il placido idolo alle torve
inginocchiate sue tribù.
VII
Altri al timone siedono del mondo.
Son mozze alfine le sue mille e mille
e mille bracciae guizzano per tutto
cadute a terrale convulse mani
cercando il ferro. Egli nell'aria fosca
levastillanti sanguei moncherini.
È chiuso là nell'isola deserta
tra le grandi acqueche l'attendamento
de' re terrestri il suo dolor non turbi
con l'alte grida. Sullo scoglio assiso
forse nel mar tuffa le bracciae lava
le innumerabili ferite.
Credono i re di udire la selvaggia
querela atrocel'aspro grido acuto
ch'egli dal lido getti alle fuggiasche
vele atterrite. No; ch'ei taceo parla
soltanto a smerghi ed aquile marine.
Ei siede e tacementre sull'Oceano
purpureggiante le sue braccia affonda.
Tace ed assiduotra la nebbialava
il sangue inesauribile che sgorga
dai milïoni delle bracciail sangue
che sgorga dalla pallida sua vita
di milïoni d'altre vite.
Non è fragore ondoso di risacca
alla scoglieranon è vento urlante
nei boschi mortinon tempesta in mare
che l'isola urtie sciacqui nell'abisso.
È lui che sparge sopra sé l'immenso
Oceano rossoper lavare il sangue.
A grandi ondate abbraccia il maree tutto
l'attira a sé. Cupo silenzio è intorno.
Lànell'oscurità caliginosa
vedono l'ombra del ferito immane
i brevi retremando ancor dell'uomo
ch'è tutto ancorae non è più.
VIII
Anch'egli vede nella lontananza
perdutaun altroindissolubilmente
tra l'acqua e l'ariaa' suoi travagli avvinto.
Lo vede: egli solleva alte le braccia.
Egli sostiene il polo sulle spalle
del cieloed allontana con le braccia
dal capo suo le costellazioni
e la marea mugge a' suoi piedi infranta.
Passano lente sopra lui le ruote
del Carroe geme sotto lui l'Abisso
e lungo lui scrosciano andando i fiumi
alle voragini profonde.
Ed anche un altro ei vede: una vedetta
stanteed insonnee immobilesospesa
al duro scoglioattraversato il petto
dal cuneo lungo di mordace acciaio
serrato da infrangibili catene
l'un piede e l'altro a due lontane rupi.
E tra i due piedi passano le navi
ch'egli insegnò; ché diede all'uomo il fuoco
delle cento arti e delle cento morti.
Ora egli stané più goder del bene
può né vietare il maleavanti il riso
innumerevole dell'onde.
E solocome i due Titaniè il nuovo
venutosolo tra sé stesso e il mondo.
L'onde che s'accavallano spumando
sulle ginocchia al reggitor del cielo
intorno ai ceppi al rapitor del fuoco
son quelle dove tuffa le sue braccia
inutile l'uomo. E il suo pensier soggiace
all'universoch'egli puòl'invitto.
Ma il triste cuore e il fegatorombando
nella penombra con le sue grandi ali
a lacerarli senza fine scende
l'imperïale aquila giù.
IL RE DEI CARBONARI
I
Nella foresta murmuri notturni:
breve nel buio balenìo di luci.
Forse non son che lucciole e che gufi:
gufi con gli occhi tondi ne' lor buchi.
O non son essi. Vanno attorno i lupi
con passi sordi sulle felci e i muschi.
O forse vanno per la solitudine
anacoreti con lor pii sussurri.
Bussano andando i cavi tronchi duri
che ognun si scosti e qua o là s'occulti.
No: sono boscaioli con le scuri
così lontani che gli ansiti lunghi
e i grandi colpi sembrano minuti
picchi di picchi e singultìo di chiù.
II
Il fuoco dorme in mezzo alla foresta
nella sua piazza. Dai cagnoli il fuoco
occhieggia e guizza. Ma di foglie mista
la terra chiude la fumante bocca.
Il fuoco è dentro: inconsumabile arde.
Nelle baracchecui di frondi è il tetto
i carbonari dalle lunghe barbe
su tronchi assisiveglianotenendo
la scure in mano. Una lucerna brilla
sul maggior tronco con le sue tre fiamme.
Il gran maestro alza le mani al Santo
e intuona il canto nel silenzio sacro:
III
- Oh! questa è gioiaquesto al mondo è bene
in un sol luogo dimorar fratelli.
È come unguento sparso sui capelli
che piove giù dal capo sulla barba.
È come unguento scorso sulla barba
che scorree bagna l'orlo della veste.
Come sereno piovere celeste
come rugiada che vien giù dal cielo;
rugiada che discende dal Carmelo
discende ai collie poi da' colli al piano.
Ché Dio segnò quei luoghi di sua mano
e vita avranno fin che secol duri.
E voi le mani alzate con le scuri
stando nell'atrioin cuor pensosi e pronti.
La notte cade. Luce è già sui monti.
Le scuri alzate contro il dì che viene. -
IV
Il gran maestro con la scure il tronco
batte tre volte. Grave parlae dice:
«Uditeo nati da fratelli. All'uscio
d'una baracca uno picchiò notturno.
Era smarrito tra la notte e il nembo
nella foresta. Vide il fuoco in una
raduraacceso. Vide le tre luci
nella capanna. Entrò. Giovane e bello
eracoi segni del dolore in fronte.
Era un'errante zingara sua madre.
Per lunghe strade lo traea fanciullo
meditabondo. Sempre gli occhi al cielo
tenevafissiper vedere un astro
che non sorgeva. E nel suo cuore il sangue
del Conte Verde era e del Conte Rosso.
Reper destinoegli sarà dei monti;
ma noi l'ungemmo re della foresta.
Contro lui geme ed ulula il lupatto
dell'Apenninoe l'aquila a due rostri
lo spia dall'alto senza muover l'ale
tacitaintenta. Ma il re nostro un giorno
trarrà la spadaleverà lo scudo
ché Dio lo vuolecon la bianca croce
mettendo in fuga tutti i lupi e i gufi
allor che la grande aquila ferita.
trasvoleràrauca strillandol'Alpi.»
V
- O Carbonariuscite dalle porte
dell'acquecon le accette sulle spalle.
Uscite al monteandate nella valle
tagliate rami verdi d'oleastro.
Recate ognuno frondi d'oleastro
rami di mirtocalami di canna.
Fatevicome è scrittouna capanna
un vostro asilo tacito e selvaggio.
Una capannausciti di servaggio
fate di rami d'acero e di pino;
ove beviate in pace il dolce vino
e vi cibiate della pingue carne.
Ma la sua parte niuno oblii mandarne
a chi non n'haché questo è il giorno santo.
E lieti siateed obliate il pianto.
Gioia è di Dio che il cuore ci fa forte. -
VI
Così celati aspetteranno il giorno
d'andare incontro al gentil re crociato.
Libereranno dalle piote arsite
allor la boccae il carbon nero al vento
prenderà fuoco e brillerà sul filo
di mille scurie da quel fuoco il fumo
a grandi spire salirà nel cielo.
Nero il vessillo come carbon nero
e rosso e azzurro come fuoco e fumo
sia nelle vostre manio boscaiuoli
o taglialegne nati da fratelli
o carbonariavanti al re che viene!
VII
Passano intanto i carbonati occulti
la nottealzando le due mani ai puri
astri del cielotra gli scabri fusti
d'annose quercienei romani luchi.
Gittano sangue al lor passaggio i pruni
scrosciano fogliefischiano virgulti.
Sotterra il fuoco hanno sepolto muti
siccome seme gli aratori ignudi.
Germinerà. Nei taciti interlunii
chiusi nei tabernacoli fronzuti
pensano al re fanciulloche tra i lupi
ignaro passache di tra le nubi
l'aquila vegliae piomba già su lui
stringendo sempre il nero volo più.
GARIBALDI FANCIULLO A ROMA
PEPIN
I
L'isola sacral'isola dei morti
aveano a poggiapiena d'asfodeli.
Là bianchi i mortivolti alla marina
sui tumoletitendono le mani
al sole occiduo. Ora al chiaror dell'alba
v'erano voci di piombini e chiurli.
E la tartana lontanò. Ma il vento
batté la vela e sibilò nei fiocchi;
e sorse allora un mozzo biondoil figlio
del padron vecchiocol grondante remo;
e stette a prua guardando muto il fiume
l'Albula chiaradel color d'argilla;
a cui d'estate non mescean le pioggie
non i ghiacciaima grandi opachi laghi
sotterraignoti. E contro lui correva
fremendo al sommoil Tevere immortale.
Ma il vento salso avea seguito a volo
dal mar tirreno il marinar fanciullo
e fischiò tra gli stragli e arruffò fresco
la lunga sua capellatura fulva.
II
La prua solcava l'ombre ora di glauchi
canneti in fioreora di rade quercie.
Dove accosciata era la scrofa bianca
coi trenta bianchi suoi porcelli intorno?
Dove la reggia alta tra i boschi sacri
nell'atrio i sacri vecchi re di cedro?
Làda pantani pieni d'erbe e giunchi
sporgean la testa i bufali selvaggi.
Dov'era il bosco della Dea Larenzia
co' grandi suoi dodici figli arvali
danzanti al sole ed invocanti il sole
con bionde spighe sulle lanee bende?
Brullaondulatasolitariamesta
vedeva il mozzo tutta la campagna
sparsa di cippiruderimuriarchi
intorno a cui pascevano le greggi
piccole. Qualche buttero a cavallo
tra i suoi cavalli riguardava il fiume
la bianca vela e il mozzo biondo al sole
oh'era in lui fiso e s'appoggiava al remo.
III
A Ripa Grande a terra balzò. Roma!
Roma era sempre. E la cercò sognando
col passo ondante come su la tolda
con gli occhi aperti come dalla coffa;
e bevve l'acqua delle sue fontane
e mangiò il pane sulle sue rovine.
Ristette al piedee sogguardò la cima
brillante al sole d'obelischi rossi.
Vide scogliere di muraglie e d'archi
sparire nella oscurità d'un nembo.
Errava assòrtoe la sonante pioggia
riparò sotto un arco quadrifronte.
Meriggiò stanco al parlottìo d'un fonte
nella spelonca della ninfa Egeria.
Sorseggiòarsol'acqua dolce a bocca
a bocca da un leone di basalto.
Salì sul clivoe vide i due cavalli
condotti al morso dagli dei giganti.
Placidocon la mano alta protesa
cavalcò verso lui l'imperatore.
IV
E si trovò tra ruderi di templi
mozze colonnee grigi archi di marmo.
Crescea per tutto il caprifico e il rovo
e s'udiva una lunga eco di mugli.
E fanciulle ciociare erano assise
presso l'ignota fonte di Iuturna;
per la Via Sacra andava lento un frate;
giaceano bovi in una piazza erbosa;
giaceano lì nel tempio della Pace
butteri all'ombra delle rosse arcate.
E si trovò presso un'immensa mole
semisepoltarottaispidasola.
E un eremita come in un deserto
v'erae condusse il biondo mozzo in alto.
Errò pei muti portici; ma quando
il capo sporse e riguardò da un arco
ruggì un leonee sorse di sotterra
il sordo urlo di mille altri leoni
e un plauso enorme; poi tutto improvviso
lo scroscio e il crollo della città morta.
V
Ed ei fuggì con nell'orecchio il rombo
del tempo anticoverso il fiume eterno;
e passò il fiumee s'avviò soletto
per luoghi ignoti. Egli saliva il colle
del Dio che il grande cielo apre e lo chiude.
Udì strepito d'acque e salmodie
ché già cadea la sera. Ed una porta
gli era davantie domandò qual era.
- Di San Pancrazio. - Uscì. Vide una villa
il marinaiosimile a un vascello
grandeimpietrito. Agli alberi suoi neri
venian da Roma strepitando i corvi.
Ed altre ville ai quattro ventie neri
pini e cipressi cui sfiorava il sole.
Stette: un'immensa cupola in disparte
vegliava in alto. E Roma era ai suoi piedi.
Il giovinetto udì squillare intorno
tutte le squille e ne tremava il cielo:
ed un rintocco era tra lor più cupo.
Poi fu silenzio. - E apparvero le stelle. -
GARIBALDI COI SANSIMONIANI
I DODICI ESULI
Filava la goletta ad ali aperte. Quasi
striscia di luna ardea la scia fosforescente.
Soffiava ancora il caldo odore delle oàsi.
Era la notte luminosa d'Orïente.
*
Sovra coverta un gruppo era adagiato a tondo
di dodici stranieri in lunghe vesti bianche.
Avean bordone al lato ed una corda all'anche.
Avanti lorodritto e graveera il Secondo.
Lungoil cammino loro! Avean patito fame
avean falciato il fienoavean mietuto il grano
parlato a turbetesa a qualche pio la mano
e maledetto al sangue a piè del palco infame.
Rincorsi dalla plebe e dalla legge oppressi
s'erano posti in viapellegrinando assòrti.
Dormian nei cimiteriin compagnia dei morti
sul marmo dei sepolcrial tronco dei cipressi.
Ma ora discendea la pace. Era l'avvento.
Parlavano soave al lume delle stelle.
E dalla Terra Nera ov'è la Sfingeil vento
moriva in un ronzio di sartie e di griselle.
*
- Dio! Tutto ciò che è. Noi siamo in luida lui.
Nessuno è Dionessuno è fuor di Dioch'è tutto.
Che è ciascun vivente? Un seme. Il semeil frutto.
Io sono: sarò sempre. Io sono: sempre fui.
È l'Universo un tempio: il tempio di Dodona.
Pendono bronzei vasi ad una selva immensa.
Uno ne tocchivibra ogni altro. Il Cielo pensa
e la Terra lontana a quel pensier risuona.
Amore. sei tuDio! Ma solo ti riveli
pensiero e forza: l'occhio e la possente mano.
O nuovo Adamo ed Evao riprincipio umano
ti siaqual èla Terra: una stella dei cieli!
Lavoraadora. Sappi e crea. Sempre più! Chiedi
alla messe il tuo panee non al mietitore.
Abbiano la tua vitae non l'altruigli eredi.
E in terra sarà Dioché vi sarà l'amore. -
*
E David intonò l'inno di pace; e calme
sorsero su le calme onde le voci in coro.
Cantarono la MadreEva del tempo d'oro
Eva aspettante al pozzoall'ombra delle palme:
del tempo avanti noinon dietro noi: miraggio
che sembra un sogno in cielo ed è un'oàsi in terra;
dove riposerà l'uomo che soffre ed erra
e pace avrà dal fortee bere avrà dal saggio.
E poisotto le stelleessi giaceano vinti
dal sonno. Ed il Secondo anche restò sul ponte
e guardavatra l'acqua e l'ariaall'orizzonte
làtra i presagi informi ed i ricordi estinti.
Parea di là guardarloallora apparsoArturo.
E Garibaldi assòrto era nel ricordare
di qual Argo il timone esso reggeasecuro
in una sacra nottein un ignoto mare...
A TAGANROK
IL CREDENTE
A Taganroknella taverna a mare
sedean nocchieri. Uno parlava a tutti.
I
«O della sera giunti qui sui flutti
la patria vive in un silenzio all'erta.
Pare la patria un'isola deserta
con soltanto il gridìo dei cormorani.
Si parlano nel cavo delle mani
scrivendo il nome con le caute dita.
Presso un antico tempio è la lor vita:
ne son gli eredi ed i maestri e l'opre.
Ma il muschio al tempio non si sa se copre
i primi muri o l'ultima rovina.
Stanno in capanne d'erica e savina:
un lume brilla nella notte oscura.
Marresquadreil grembiule alla cintura:
vegliano muti fin che il gallo canti.
Noi tra il cielo e l'abissoo naviganti
possiam gettare al vento al mare un nome;
ed il vento urla e il mare sbalzacome
per afferrarloquesto nome: Italia!»
Gridaron tutti: Italia! Italia! Italia!
Parvein un cantoche un leon ruggisse...
II
Quegli guardò verso il ruggito; e disse:
«L'Italia è vintaora non v'è più guerra..
Ma non v'è pace. Cova ancor sotterra
nato dal fuoco il genitor del fuoco.
Annerisce sotterra a poco a poco:
ora si fredda perché poi più bruci.
Brilla la macchia qua e là di luci:
sono baracche in mezzo alle radure.
Vegliano i boscaioli: hanno la scure
tra i piedihanno la zappahanno la pala.
S'appoggia alla parete alta una scala.
Siedon su tronchiverdi ancordi querce.
La venderannola lor fosca merce
allor che il sole tocchi la foresta.
Ma cantò il gallol'aquila s'è desta
il toro mugliaè sorta già l'aurora.
È nato il soleil sole è altoè l'ora:
è sempre l'ora. ORAfratelliE SEMPRE.»
ORA - gridaron tutti a un tratto - E SEMPRE!
Sobbalzò il fulvole pupille fisse...
III
Quegli guardò la fulva giubae disse:
«È sorto un uomoun messo da Dio venne.
O tu dal boscoprendi la bipenne!
Lascia annerire il tuo carbon sotterra.
Lascia la zappae il grande albero atterra
lascia la palae taglia doga e trave.
Esci dalla foresta e fa la nave
per questa Italia e per la sua fortuna:
giovine Italiagrandeliberauna.
Tu lascia squadre e marre: ecco la spada.
Il caval nero pasce erba e rugiada
nel cimiteroil lenzuol morto indosso.
Móntavi ancora sumonaco rosso!
Galoppa ancoracavalier templare!
In questa Terra Santa fa volare
sul saio rosso il gran bianco mantello!
Popoloavanti! teco è Dio!» - Fratello! -
Il giovin fulvo si lanciòs'apprese
alla sua manol'abbracciògli chiese:
- Chi è? - Tu? - Garibaldi. - EgliMazzini.
GARIBALDI IN CERCA DI MAZZINI
ORA E SEMPRE
I
Mazzini e i suoi dispersi nello stesso
luogo sedeano attorno alla parete.
Giovanni al seno gli piangea sommesso.
Ei disse: - Il pianto è l'acqua per la sete
del cuore. Anela per il suo deserto
a quella fonte l'anima. Piangete.
Iacopo! Era il mio primoera il più certo
era il più mite. Amava l'ombra. Volle
esserema dall'odor suoscoperto.
Parea quei gigli fatti di corolle
né d'altro; d'una purità di cima
ma nati a vallenati a piè del colle:
chino anche lui non come fior che opprima
la pioggiama che il solo essere fiore
pieghi sul tenue gamboda séprima.
Oh! egli aveva la mestizia al cuore
di quei ch'è soloperché primoin via
e vede appena Chanaànche muore.
Ma ei sapevaavea già detto: «Sia!
anche s'è morto l'albero onde nacque
il seme è buono; ed uno gittò via
il paneed altri lo trovò su l'acque.» -
II
Gli esuli intorno singultian pian piano.
- Male ei gittòciò ch'è di Diola vita?
Fucome il bimbo ch'ha il suo pane in mano:
il pane e il pomo che sua madreuscita
diede al fanciullo che mangiasse intanto:
ed altri l'urta e fa ch'apra le dita.
O noma disse: «Eccomi afflittoaffranto!
Per non peccare contro i miei fratelli
contro te peccoche perdonio Santo!»
Ora il suo sangue grida ne' lavelli
là della Torre. Un grido che si vede.
O repiù brillaquanto più cancelli!
Vendetta! Ogni uomo è diventato erede
Iacopotuo. L'Italia oggi t'adora
martire primo d'una nuova fede.
Furon le dita rosee d'un'aurora
con che scrivesti nella cella nera!
La nuova Italia cominciò d'allora.
E cominciò d'allora la nuova Èra
che rivedrà nell'avvenir profondo
con terra e cielo nella sua bandiera
Roma al timoneplacidadel mondo. -
III
Gli esuli lontanare vedean quella
gran nave. Egliil profetastupì come
sbocciasse a lui dall'anima una stella.
La stella illuminava le tre Rome;
auree cupolearchi trionfali
e una città che non avea che il nome.
Erano un atrioi ruderi immortali
di questa. Antica su l'antica croce
quetava l'aquila il rombar dell'ali...
Egli guardava... Ed esclamò con voce
alta e profonda: - O gioventù latina
se non è il fontenon sarà la foce.
Dio t'urla in cuoreo gioventù: Cammina!
Ascendi il monte! Sosta sulla vetta!
Snuda la spada e butta la guaina!
O gioia mattinale! uno in vedetta
sul piccomentre dormono i trecento
sopra le foglie mortenella stretta
dei montie in mezzo la bandiera al vento
sibila e schioccaed egli ode lontane
della città grida e rintocchiattento...
«All'armi! all'armi!» Tra il tumulto immane
passi la rossa schiera con la romba
della sua corsae sopra le campane
squilli secura lieta altala tromba. -
IV
Tre colpi all'uscio. Era un fratello. Avanti!
Un uom di mare entròlarga la fronte
bronzatocon fulvi capelli ondanti.
Stette sereno come ancor sul ponte
della sua navefisso alla Polare.
ORA! - sembrò parlasse il mare al monte
con un'ondata. - E SEMPRE - il monte al mare
immobilmente. - Giunsi or ora in porto...
da Taganrok... Voi siete a comandare
qui sul ponteio... vengo a supplire un morto -
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .
MAZZINI
LA TEMPESTA DEL DUBBIO
I
Mazzinigiàcome Gesù trentenne
era già solo. Un'ombra si diffuse
su la solinga animae il dubbio venne.
Tutto crollato: le speranzemorte
e morti i cuori. S'erano richiuse
per sempre - con un lento addio - le porte.
II
Con ferro suo la palma volta in mano
cadea l'Italia! Ora non più risveglio.
Tutto era statoed ora e semprein vano!
Solo - e dal volgo si credea ch'esangue
cupomandasse i fidicome il veglio
della montagnaebbri d'haschischal sangue.
III
Spenta la fede anche ne' suoi più cari;
chi lontanò crollando il capo stanco
chi lo seguiva con sorrisi amari.
Fuggianoal vernocome morte foglie:
scendea dal cielnon loroil lenzuol bianco
ch'eternamente a gli occhi altrui ci toglie.
IV
Sol gli restava la sua madrein pianto
pianto lontano sul deserto mare
cui essoo madre! era dolor soltanto.
O madre! o madre! o alte mute grida
vedendo in sogno il figlio suo passare
scalzocol velo nero - un parricida! -
V
O le altre madri ai piedi della croce
pregare udiva ed accusare a Dio
luicol materno pianto nella voce.
E le vedeva in fila uscir dal chiostro
per dire a lei: - Che piangi? Il pianto è mio:
non voglio. Il pianto è nostro! Il pianto è nostro!
VI
È di noi madriche i figliuoli appena
presti alla vita li sappiamo in grotte
sotterracome bestiealta catena.
È di noi madriumili ignare oscure
cui tolse i natial fine della notte
su la dolce albapiombo corda scure. -
VII
Ed ei pensava: - E perché mai v'ho tolti:
figlialle madri? Era di voi più morta
o per lei mortio dentro lei sepolti
l'Italia. Dunque... Oh! per un mio delirio!
Fra terra e cielo io la vedea risorta
con su la chioma il tremolìo di Sirio! -
VIII
E nella notte insonnelungavuota
che aveva del giorno anche obbliato il nome
sbalzava al suono d'una voce nota
la voced'uno che passavad'uno
che si fermavalo chiamava - Come?...
Iacopo! - S'affacciavaansio... Nessuno!
IX
Su tre lunghi anni avea soffiato un breve
attimo - Vive! Ha franto i ceppi! È meco! -
Nessuno là nel grande albor di neve.
Oh! dal sepolcro... egli credea che fosse
bianco vanito nel biancorsenz'eco.
C'erano sulla neve goccie rosse...
X
Era vanito nella forra brulla
dicendoVieniin suo passaggioe il vento
vaniva anch'esso per la via del nulla;
vaniva là con lunghe vocie gemiti
e fremitiurla d'ira e di spavento
e di minaccia e di rampogna - Eh? Tremi! -
XI
Oh! avesse accanto un'anima serena
un cuore amicoper placar con esso
quei morti in iraquelle madri in pena...
per non vedere l'altro figlio d'Eva
il reol'ugualel'altro sésé stesso
cui maledivasopra cui piangeva...
XII
E sìqualcuno era pur giunto... Forse
quei che move all'intorno un nembo d'aria
salsa di mareil giovane dell'Orse
quel timoniere d'anime tranquillo
avvezzo ai gridi della procellaria
Borel! ch'ha nella voce alta lo squillo.
XIII
Né luiné altri. Era Borel lontano
tutto l'Oceano e le sue cento aurore.
A Cabo Frio portava ferro e grano.
La sua sumaca era agghindata a festa.
Ma il cabottiere si mangiava il cuore
ed anelava al largo e alla tempesta.
XIV
Egli era stanco d'udir sempre il rombo
della risacca contro la scogliera
e dove giungea l'ombra di Colombo
di bordeggiar con una garapera.
Borelun giornoin mare mutò rombo;
virò di bordoissò nuova bandiera.
XV
Dodici cacciatori di jaguari
re delle Pampemulattier dell'Ande
eran con luisbuffanti dalle nari
il tedio di quel navigare a rande.
Ei disse: - Siated'ora in poicorsari.
La nostra Italiaora sarà Rio Grande.
XVI
Noi più non siamo mercatanti ignavi
che in ogni rada gettino i grippini;
noi combattiamo per pezzenti e schiavi
siamo l'Italiao miei lupi marini.
Avanti! un guscio contro cento navi!
contro un imperoil nome tuoMazzini!
XVII
Mazzini un giorno si destò tranquillo
sereno. Ognunonon il suo destino
ma porta dentro il cuore il suo vessillo.
Avanti! L'uomoalta la fronte o bassa
non èlieto o piangenteun pellegrino:
ma è un celeste messagger che passa.
XVIII
Avanti! Tutti hanno il lor fine al mondo.
Tutti hanno un posto loro nel gran mare
dell'esseree sia pur l'alga del fondo!
Avanti! Dice Dio: Quando son io
che mandoandatesenza mai sostare
senza mai riposare. - E doveo Dio? -
Tu che devi morireuomoa morire!
Tu che devi soffrireuomoa soffrire!
GARIBALDI IN AMERICA
I
VIAGGIO A ESCOTÈRO
Torna al Rio Grande col suo pro' compagno
torna il Filibustiereora a cavallo.
Prese il cavallo nella mandra al laccio
frenòsellò: lo domerà stradando.
Galoppa dietro il cavalier selvaggio
tutto con un cupo tumulto il branco:
falbe giumente col puledro accanto
stalloni in corsa inalberati al salto.
Ed egliquando il suo cavallo è stanco
getta le frombe sibilanti a un altro;
lo frena e sella e monta su fischiando.
Il vento in mare gl'insegnò il suo canto.
I mustangle giumente e le puledre
liberi seguono il Filibustiere.
Sul feltro suo beccheggiano due penne
lunga la chioma al vento si distende.
Ma queta il passo ove la steppa è verde
perché i cavalli pascano le alte erbe
perché bevano chiaro le giumente
a qualche stagno ombrato di ninfee.
Sembra un pastore. E indugia perché vede
i puledrini ancora alle mammelle.
L'armento nell'oscurità s'aduna
fa un grande cerchio in mezzo alla pianura.
Le teste l'una all'altra hanno congiunte:
sognano insieme orecchio a orecchioil puma
l'uomoil jaguar: l'un dopo l'altrosotto
l'ombra stellatarigna e scalcia al sogno.
E l'uomo giace sulla terra nuda
e guarda in cielo e naviga lassù.
Passa tra grigie nebulose ed erra
tra gruppi ignoti. Avvista Altair e Vega
che riconosce. E sempre più s'inciela.
Da stelle a stelleè sopra la sua terra.
Dal cielo azzurro grida Italia! Italia!
E sbalza in piedi ad un nitrito. È l'alba.
Per boschi e campi passa il cavaliere
tra uno svolar di code e di criniere
e groppe mosse su e giù come onde
e ringhi acuti ed ansie fremebonde
ed urli e calci al vento e salti a sghembo
e il subito ampio rotolar d'un nembo.
II
A PIRATINIM - IL CAPO
E in nove giorni giungono al silvestre
Piratinim. Il popolo ribelle
avea sui muli e in carri la sua legge
portata là coi fasci delle verghe.
LàBentoun vecchio alto e salcigno siede
in terrain mezzo alle araucarie nere.
- Ospitesiedi. Hai molto pel Rio Grande
fatto e patitoin terra e in mare. Grazie.
Or verrai mecoch'io mi vuo' condurre
in armi al passo delle due Lagune. -
Cavalli a un tronco avvinti per la briglia
pascono intanto melega e gramigna.
Ed arde un fuoco lì da parte e brilla;
un uomoun Combolento su vi gira
l'arrosto pingue: colasfrigge il sangue
e un grasso odore nell'aria si spande.
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GARIBALDI VECCHIO A CAPRERA
AL FOCOLARE
Garibaldi siede al focolare
siede avanti fuoco di lentischio.
A Caprera cupo batte il mare
il libeccio l'empie del suo fischio.
Egli vecchio dalla barba bianca
cova il fuococova il suo pensiero;
e si trova sur una barranca
la gran chioma scossa dal pampero.
Vede un mare verde là che sogna
d'esser terra né flottare più.
L'aria porta beli di vigogna
alti e bassi fischi di gnandù...
Oh! le pampe dell'immenso Plata
verdi sotto il cielo senza nubi
una solitudine ondulata
sparsa d'isolette di carrubi
sola terra degna che vi scenda
il marino che patì fortuna;
egli d'una vela fa la tenda
e vi sogna sotto l'alta luna.
Ecco un tuonoun calpestìo di zampe
che s'appressa sempre sempre più...
Va sul mare verde delle pampe
lo stallone e la sua gioventù.
Come è bello il libero stallone
con la coda e la criniera ai venti!
Mai ne' fianchi non ebbe lo sprone
né il ribrezzo del ferro tra i denti.
Pura è l'unghia di fimo di stalle
brilla al sole la lucida groppa.
E' raccoglie le sparse cavalle
annitrisce al pamperoe galoppa.
Vagaloppa! Va libero e fiero
della tua solitudine tu!
più veloce sei tu del pampero
più del tempo... del tempo che fu...
INNO A ROMA
INNO A TORINO
INNO A ROMA
Gl'Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome
Romati serbano: Roma era ne' secolied è.
IL NOME MISTERIOSO
O - ma qual nome orade' tuoi tre nomi
dirà l'Italia? Il nome arcano è tempo
che si rivelipoi ch'è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fossee solo nei misteri
segretamente s'inalzò tra gl'inni:
mentre sull'ombra attonita una strana
alba apparivaun miro solee i cavi
cembali intorno si scotean bombendo -
Amor! oh! l'invincibile in battaglia!
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l'infinito mare!
Vennero in prima schiere a teper l'onde
d'esuli armatied una stella d'oro
reggea le navi incerte del cammino;
a te noi genti italiche la stella
d'alloratra le fiamme e tra le morti
col raggio addusse che giammai non muta.
IL PRIMO EROE
Chi per te primoimmensamente amata
cercò la morte? Fu nella penombra
dei tempigrandelungo il Tebroun pianto.
L'eroe Pallante era caduto. Offerse
l'àlbatro il bianco de' suoi fioriil rosso
delle sue bacche e le immortali fronde.
Gli fu tessuto il letto di quei rami
de' tre colorie furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.
Oh! ma che pianto fu così tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero redalla silvestra reggia.
Faunoil suo nome; ed abitava i sassi
del Palatinotra le antiche selve
misteriose. E tu non erio Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscosee bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de' corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccolacoperta
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due caniche correndo innanzi
bandìanlieti abbaiandoil suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva - È l'alba -
di sul colmigno il passeroe la rondine
anche più pressogliel garrìa dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo doloree la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche
pascevanoe la valle posta al piede
si mescolava d'un belar d'agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupiegliracchiuso il gregge
in uno specos'addormìa tranquillo.
Veniva alloraper le tenebreuna
lupae fiutava il chiuso lupercale.
E Faunoil buononelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti
invisibile. E sulle antiche quercie
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tantigli anni
tardi a venne.
LUPI E AQUILE
Aprileche s'apriva
il fiorevennee il Tevere più gonfio
portava l'onde con un grande rombo:
e d'ogni parte sulle piane e i colli
arsero fuochi nella notte sacra.
Tutto splendé. Fiamme correva il fiume.
Però cheintornoalle selvaggie stanze
fuoco i pastori davanomutando
già le capanned'erbe e fraschein case.
E poi saltando sulle fiammeun canto
diceanosacro: «Fuoco puroFuoco
grandebuon Fuocoche ammollisci e domi
portati via queste capanneportati
via questi nidi! Noi non siamo uccelli
lupi noi siamo. Addiocose d'un'ora!
Siamo per fare una città ch'eterna
duried un proprio focolarein mezzo
sarà per teche mai non dormio Fuoco!»
Ed una torma giovanil più fiera
diceva: «Oh! bello andare al vento! È bella
l'ora che fuggee sempre un altro il sole!
La terra sempre nuova sotto quelle
antiche stelle! Voi da voi ponete
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
sia senza fine a noi la viala terra
senza confine! Lupisì; ma ora...
dateci l'aleo aquile!»
L'ARATORE
Uno arava.
Egli segnavasull'auroraun solco
quadrato intorno al colle Palatino.
Sentian le zolle il primo aratro allora.
E sotto il giogo era una vacca bianca
e un rosso toroche di quando in quando
il rauco fiato si gemean sui collo
molto anelando. E la città futura
stava e miravacoi vincastri in mano
e con indosso pelli irte di capre.
Ma gli altri fieria chi piacea l'andare
col gregge errantee l'erba che più bella
rinasce sempre sotto il dente al gregge
ridean dei semi che dovean sotterra
marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
aveano gli occhie l'ansito ondeggiante.
Stava il fratelloquadel Capoanch'esso
con luilattonzo della lupa; ed ora
schifivalui villanoegli pastore.
Taciti i buoi tiravano nel cupo
tacer di tutti; ché fuggiano il grande
bifolco orrendo ch'era loro a tergo.
E quicon l'ale largamente aperte
al soleapparve un'aquilache ferma
mirava a lungo qual lavoro in terra.
Poifisa sempres'affondò nel cielo.
LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE
Il pazïente aratro col suo coltro
allorapiù splendente della spada
prendeva a forzacon ferite a fondo
la terra; e il Tebro che lambiva il colle
con l'acque torbevie più alto un suono
mettea chiamando l'anima dei forti:
«Oh! voiche aprite con un rostro adunco
la terraomai la prora che toglieste
alla mia navea lei rendeteo figli;
ed ora in mecon quella ch'è il mio coltro
segnate un lungo solco sino al mare
sino al gran mareazzurro e piano; e oltre!
Bene avverrà!» Così diceva il Tebro
con l'incessante murmure; ma il vento
di primavera dal lontano lido
sempre più fortele narici aperte
a lor bagnando de' suoi salsi spruzzi
«Oh! voi che fate una città pastori»
diceva. «eccovi l'atrioecco le porte
color di cieloe il limitar che tuona
sparso di schiuma dalle larghe ondate.
O cittadiniecco la via già fatta
labilepianae ne son pietre i flutti.
Dall'urbe uscite: avanti voi c'è l'orbe!»
Allor li prese un vago amor dell'onde
che sempre vanno a modo de' pastori;
di sempre andare e pascolare il mondo.
LA RISSA
Paleso grande e buona Iddiadi latte
munto d'allorati facean l'offerta.
Nella città non nata la giovenca
cimava steli e fiori; a lunghi sorsi
beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto
suona di grida. Rissano i pastori
proprio nel solcoun passo dall'aratro
che riposava. Gli uni avean lo spiedo
da cacciagli altri aveano l'ascia in mano.
Questi già pietrequa e làda terra
traean tagliando e scalpellando; e quelli
piangean la terra duramente offesa.
«Non era assai picchiarla con la zappa
fenderla poi col vomere! Eccorossa
vogliono ancora frangere alla madre!»
Vennero all'armie l'ascia del lavoro
sentì la mortee tu nell'aria rosa
tremavio stella d'oro della sera
vedendo in cielo nuvole suffuse
del sangue ch'era sparso in terra.
L'ASCIA
Roma
purificata balzò su dal solco
rosso di sangueché alla Terra Madre
consacrò l'ascia onde l'avea ferita
onde l'avrebbe per le genti tutte
ferita ancora. O asciain ogni plaga
ti dedicòper questa grande Italia
ti seminòti sotterrò nel mondo.
Tu sotto i templi e sotto l'are e sotto
gli anfiteatri semiruinati
ti trovi e sotto l'ardue termeinfrante
presso le nubi. Te nel cor le sponde
sentirono del Reno e del Danubio
t'ebbero le foreste invïolate
e le sabbie arse che il leon sue rugge.
Tu sei presso le moliove sepolti
sono i giganti; sotto gli occhi fissi
eternamente della muta Sfinge;
tu sotto accampamenti che nessuno
più moverà. Tu scalpellasti i massi
per le infinite pompe del trionfo.
E per te l'Arco trionfal si prese
l'arco del cieloe sulle vie la Gloria
aprì tra due colonne le sue porte
senza battenti.
LE STRADE
Era vicino al tempio
del dio Saturnodio seminatore
e falciatoreun grande cippod'oro.
Di lì per l'orbe tutto lanciò Roma
le strade sue di duro sasso e duro
suono. Di lìdal cippo d'orosette
vie quattro volte si lanciarono oltre
ai quattro ventie prima tra sepolcri
moveanoa piè di tumuli e cipressi
sotto la tacita ombra funerale;
poi via per verdi campi e per deserti
diritte come solchie via tra rupi
tagliate da scalpellie via per selve
profondemutesolo allor ferite
dal ferro ignotoe via sopra veloci
fiumi aggiogati con eterni ponti
e via per l'Alpiche vincean con giri
blandile irate. Da quel sassoa forza
ruppero un tempo tante vie sul mondo.
Parea che un luminoso Sagittario
via via volgesse a tutti i venti il grande
arco fatalee saettasse intorno
intornostante nel bel mezzoil cielo.
LA LEGIONE
Le dure suole e i cerchi delle ruote
fecero i solchi in queste viebattute
dalle coorti che movean le insegne
contro i terrestri. Andavanoe la schiera
villesca alzava per insegna un fascio
d'erba. Prima la falce e poi la spada.
Mai non mancava fra le spighe il rosso
di qualche fiore. Fissapoisull'asta
era una manoch'è una pianta sola
con più rampolli. Della via fu guida
poscia la lupa; e si vedean passare
cignali e smisurati liofanti.
E faustainfinedi tra un baglior d'oro
l'aquila uscì: le ignare terre e l'onde
remote corse un brivido ed un fremito
al ventilare delle sue grandi ale.
E le legioni col lor pilo grave
per quelle vie senza la meta e il fine
mossero intorno. Ed assembrava allora
tutte le genti e i popoli l'antica
bùccinache al pastore fuor di mano
sul far di notte avea mandato un segno.
E dominava sotto giusto impero
tuttiil sottile tralcio d'una vite.
I MESSAGGERI
Alle battagliein mezzo ad una nube
eran presenti i due gemelli Dei.
E niuno mai li vide; ma soltanto
tra squilli gravi delle trombeacuti
de' lituie grida ed ansimar feroce
s'udiano al vento alti selvaggi ringhi.
L'uno era chiaro come l'aureo sole;
l'altro parea la notte opacaed era
avviluppato in ombra di dolore.
Ivano a paro avanti le coorti
di bronzoi forti giovinetti in fiore
erti su gl'immortali lor cavalli.
Ma in mezzo al marequando sulle lievi
liburne erano le aquileondeggianti
per la fortunae l'armi contro l'armi
cozzantiallora divenian due stelle
che rifulgeano fisse tra il brandire
degli alberi e l'oscillar delle antenne.
Erano questi i tuoi corrierial cenno
prontio Vittoria. All'apparir del vespro
volgean del pari il corso de' cavalli
e per le strade andava il colpo e il tonfo
dei risonanti zoccoli; e i cavalli
eccoanelantiessi adduceano all'acqua:
o dea Iuturnaall'acqua tua perenne:
né già cadean le stellené le nubi
dalla prima alba erano ancora orlate.
Vegliava un solo focolare in Roma
v'era una sola casache mandasse
baglior di luce dalle sue transenne.
Vesta attendeva i reduci seduta
al fuoco inestinguibile.
AI DUE GEMELLI
Fratelli!
O in pace alfine (come voi chiamasse
il tempo antico) ora; non giàfratelli
alloraanche pugnaci sotto il ventre
della nutrice vostra lupa fosca:
tante pendean le poppee tra voi d'una
sorgea contesaper averla entrambi:
voi che la lupa con la scabra lingua
non ammansavaed ammansò la morte:
che stretti poi con infrangibil patto
come la notte è giunta al dìcelesti
cavalcatoricomponete il tempo
non interrottocon la luce e l'ombra;
su! le criniere v'attorcete in mano
saltate sulanciateli: da tanto
hanno i cavalli l'émpito nel cuore!
Al lor ritorno avvinti per le briglie
alle colonne vostredagli augusti
ruderi il loglio antico pasceranno.
Ma ora andate a rivedere i campi
delle legionia riveder le terre
onde v'avvenne riportare il nunzio
della vittoria. Si combatte ancora
con ferro e fuoco. Sono le coorti
d'allora; al ciclo va la polverealto
suona il fragore. Colmano bassure
piantano i vallisfanno i colliocculte
forano vie per entro le montagne.
Sono picconi l'armi nostre. Andate
propiziando! il Popolo pilumno
pensi i trionfi che menòle leggi
che feceil dritto che impartìla pace
che diedee allievi il suo lungo lavoro
d'oggi con la sua gloria veterana.
LA VERGINE MASSIMA
Oraascoltando le sorsate al fonte
sacroe il bussar dell'unghie alterne in terra
nel tempio augusto pallida taceva
fisa con gli occhila sacerdotessa;
poinell'alto silenzio risonando
una voce mirabile: Vittoria!
ella premea nel cuore quella voce
e quel portento e s'avviava all'arce
del Campidoglio. E il popolo mirava
tacitamente ascendere il pontefice
e la vergine massima.
IL PASSO DI ROMA
Divina
cosìcon passosempre ugualdi gloria
andava Roma verso il grande imperio.
E monti e valli e fiumi e selve al passo
fremean sonanti sotto il piè di Roma
della Immortale sempre più lontana.
E mille passi delle sue legioni
fulgureggianti di metallo al sole
ella chiudeva in uno dei suoi passi.
Ed una pietra ne segnava l'orma
tutte le voltee i popolia quell'orme
così distantiabbrividian nel cuore.
I DUE IMPERATORI
Oh! ben temeano i popoli le scuri.
Ché per il mondo si vedea passare
un uomo grande più che l'uomoun grande
che dava a tuttoil freno o l'urtoei solo
della sua mano. Egli partìa la terra
con la sua spada e il cielo col suo lituo
augure circondato dalle rote
degli avvoltoi. Lanciava egli all'assalto
con un suo cenno l'aquilee le lievi
turme al galoppoe l'ululo di morte
ravvolto nella polvere veloce.
Eppur mostrava placido alle genti
placate il voltoe calmo i cavalloni
ancora irati dopo la tempesta
con quella mano che impugnò la spada
calmavae dal belligero cavallo
dicea le leggi e l'arti della pace.
Salveo possente Roma! Tu le terre
hai dissodate col tuo duro coltro;
la macchia hai franta perché desse il grano
placido. Il grande imperio era il tuo fato.
Quando a te fu dagli ampi omeri tolta
la porporaecco il re de' sacrifizi
uscì da templi novi e da miti are.
E poi levò di terra la corona
e ne cinse la lunga chioma bionda
d'un re che aveva la fràmea per lancia;
e poivolgendo i secolibattaglia
mosseegli re dei ritial re dell'armi.
E tempo venne che dall'alto soglio
con la corona sulla fronte eretta
con nella mano la stellante spada
(stettero i messi attoniti nell'aula
e reprimeano i secoli la corsa
infrenabilecome visto un cenno
rapido di far sosta e di dar volta)
«Che domandate?» addimandò. «Ciò ch'egli
il vostro redomandaè mio. Son io
il Cesareson io l'Imperatore!
Andate!» E il re sacrìfico si prese
i fasci albani; e l'ara vide al lume
dei sacri ceri scintillar le scuri.
GLI DEI
Fu la tua parte. Era il tuo fatoo Roma.
Tu sulla poppa assisanon volesti
per nessun vento abbandonar la barra.
Profughe genti vennero dal mare
a darti inizio; e i profughi tu sempre
prendesti a bordo della ma gran nave.
Tu seid'anticoun santo limitare
d'asilo ai popoli esulitu sacra
fossa cavatain cui le genti i semi
poseroe zolle della patriae cose
sacree le lor memorie ed i lor Mani.
Fosti l'altare per gl'iddii fuggiaschi;
pur solo ad uno implacidaad un solo
poveroun dio sì umilmente dio!
Altri alla luce aperta gli stranieri
numi adorandoi lor pingui altari
facean vermigli di taurino sangue;
altri in corteiper la cittàsolenni
batteano i cupi timpani e le strade
tutte accendean di queruli ululati.
Ma quelli per le volte e per le ambagi
d'un nero sotterraneo laberinto
seguivano una fiaccolae con voce
segretalàbenedicean cantando
ignoti a tuttiil loro ignoto Dio.
Per tempio aveanper i lucenti altari
di Romaalcun muffito sepolcreto
e la lor vita era coi lor sepolti.
Avanti l'archefiale rugginose
di sanguee lumi dall'esigua fiamma.
Dicea quel lume che la vita scorsa
era col sanguesìma invano. Il morto
dormiva. E il sonno era leggero e breve.
Una colomba col suo roseo becco
svellea da un canto un ramicel d'ulivo
e si levavacon la frascaa volo.
Ed un pastore s'era messo in collo
l'agnello stancoe andava con la verga
sua pastorale e col secchiello in mano.
C'era la crocee dubbio erase croce
fosse od àncora. Sbalzata dal vento
percossa dalla folgorela nave
era al sicuroalfine in pace: aveva
gettata l'àncora nel cielo.
ch'ella da molti secoli nell'ombra
era discesatutta rughe e muffa:
«... non cadrà piùpoi ch'è il dolore umano!
Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
È il dio sol essoil solo dio fra tutti
che non può mai morire!»
L'ESACRAZIONE
Cadean gli dei; restava il Campidoglio
invïolato; e immobile la rupe
pendea sull'urbe. E il Barbaro selvaggio
invase l'urbee la guastò col ferro
e con la fiammae l'unghia de' cavalli
gravepestò le sue ceneri: invano.
Fin ch'un di loro decretò che lento
mortal languore la struggesse. Vinta
egli poteva anche spianarla al suolo.
«Ma no» diss'egli: «la sommuova il verno
la inondino le pioggiee disdegnando
da sé la scuota e gitti via la terra:
la frangano le folgori tonanti:
sia sacra a Dioprecipitino i cieli
sulla lor cosa.» Tanto ei vollee tutti
al suo comandopartonoe le madri
sono strappate all'areed i fanciulli
vanno e le indarno verginette in fiore.
Poiper le vie del duro suonoi plaustri
Goti e i cavalli e le Àmale coorti
piene di predaandarono sull'orme
degli antichi manipolie lontano
il vincitore in sua lorica d'oro
LE FAVISSE
Intantoquali in una torba sera
fuggon le nubi d'ogni parte e vanno
gemendospinte qua e là dai venti
tali gli dei cacciati dai lor templi
empìan notturni il cielo di querele.
E di quei templi l'umide cisterne
sin le favisse sotto il Campidoglio
fervean d'un cupo murmure. Ché i molti
idoli sacril'uno dopo l'altro
vi discendeano. E Venerela vita
vedea la prima volta ora i vetusti
lupi e cignalie là pur mo' gettata
schifìa Minerva i rozzi cippi e il vano
dioch'era un legno putridoed ansante
non ravvisavanel Mamurio irsuto
Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo
dell'arcedietro gli altri dei consenti
Giove pieno di nubi il sopracciglio.
«O già potenti in cielosulla terra
nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
altri dal soglioed altri noi discaccia.
Ma non è vano l'aspettar vicenda.
Quel dio rifattoa cui cedemmo contro
cuorefuggiascopoverodeforme
il cui soglio è la croceed il cui serto
sono le spine dei roveti...» Ed altro
egli dicevama seguì con voce
piena d'orrore la Carmenta antica
vaticinantea nessun dio più nota
svanì lasciando gli edifici soli
già balenantigià meditabondi
tra sé e sédel crollo ultimoe Roma
Romasotto il suo sole almodeserta.
IL GRANDE SEPOLCRO
E fu silenzio dentro le muraglie
sacree il pomerio grande ora cingeva
grande un sepolcro. E il sole che la vide
tacitaa poco a poco calòlento
sfiorando con un alito di luce
le cupole e i lunghissimi obelischi;
e poi nel trarre fuori il dìtentando
invano di svegliarla dal gran sonno
stupiva di vederla altra e la stessa.
Suono non v'era se non d'improvviso
crollo di muro o il tonfo di finestre
cui si provava di serrare il vento.
Talvolta andando e riandando i corvi
gracchiantia stormoquel letargo strano
scoteannell'irad'uomini e di cose.
E molti discendean dall'Aventino
foschi avvoltoiche ripetean l'augurio
natalein altosulla città morta.
E poi notturna i cuccioli la volpe
guidavae le basiliche del Foro
cauta girava e le colonne antiche.
E dopo i lunghi secoli le lupe
del tempo primo vennerocercando
gli antri per l'alte sedi imperïali.
Pareandestati dal lor sonno i templi
aperti starestare ed aspettare
i sacerdoti immemori. Giaceva
abbandonata per i sette monti
Roma. E le acquate assidue la battono
e le raffiche rapide del vento
e la fiammante folgore del cielo
ormai fa divampare il rogo.
IL NOME CELESTE
Aprile
era vicinoeracon luivicino
il dì natale della città morta.
E di narcissi dalla chioma d'oro
di crochi dagli stami d'oro rise
la solitudinee dalle rovine
dei templi il rosso smìlace comparve;
e le vïole al fonte di Iuturna
castes'abbeveravanoe gli sparsi
ruderi si gremìano di giacinti;
e tutti i bronchi e pruni asprinel Foro
Romanoin cima avevano una rosa
e sopra i marmi antichi era l'antica
porpora. Per nessunodal sepolcro
dal suo sepolcroch'era anch'esso infranto
spargeaversava senza fine al cielo
nel tempo dolce ch'è il suo tempoi fiori
che sono suoiquella che in cielo è Flora.
A FLORA
Flora! madre dei fiorio tu cui sempre
è primaverao tu che per le genti
immense hai sparso il nuvolo dei semi
la Terra aiuta! Questa pia saturnia
terra produca in maggior copia i frutti
che già versava dal fecondo grembo.
Nutra di sé quelli che già nutriva
armenti e greggie tornino gli uccelli
ormai sparitia liberare i campi
e per i campi floridi echeggiare
facciano la dolcezza del lor canto.
Alle mammelle opime della Terra
sugga una prole più gagliarda il latte
e insiem col latte la virtù romana;
ed ogni mare solchi ed ogni terra
calchianche il cielo navighisembrando
candidi stormi di canori cigni.
La tua città non lasciar più che cinta
sia di deserti e verdi acque muggenti
del torvo bue selvaggio che vi guazza.
Riguarda quei villaggi di capanne
quelle capanne squallide di stoppia
o Flora! Dunque non distrusse il fuoco
de' primi dì tutti i tuguri? Dunque
non toccò tutti gli uomini il Diritto
con la sua verga? Guarda: sono schiavi
sotto le bestie! Rendi a quei meschini
o Florail suo; liberatrice abbraccia
quelli spogliati; e per sé soloo Flora
raccolga chi le seminòle messi
come allorquando si lasciava a mezzo
solco l'aratro e s'assumeano i fasci.
Rinnova l'arte anticacingi al capo
l'antico serto e fa che mai non cada
l'inno di gloria che beò l'Italia.
Sianper i colliglauchi olivi e verdi
vitie di spighe rigogliose ondeggi
la valle immensa. E fiacchino la forza
del vento e il nembo struggitor le selve
veglianti a guardia sul cigliar dei monti.
Il Rubiconeeccogià bianchi ammira
enormi tori. Egli che vede andare
per la campagna tante paia e vede
da dieci bovi tratto un solo aratro
egli che già non obliò nel sonno
le bronzee file della forte Alauda
pensa all'imperioa Cesareai trionfi.
Noi non l'imperionon i cortei lunghi
di quei trionfi a te chiediamo. Un'Ara
abbiamoe noidi Paceerettao Flora.
I fiori dà color di sangue ogni anno
(solo nei fiori tu il color di sangue
lodi e nel casto viso di fanciulle:
mieleoliovinoo Floraami; non sangue)
dà le memori foglie dell'acanto
per adornar quest'ara. Alto nel mezzo
noi collocammo in una vampa d'oro
chi la portò; questa concordia augusta.
E quanti ancora col lor sangueeccelsi
spiritiquesta pace e questa patria
fecero a noilà stanno. E sonoo Flora
la messe tua che cade sìma sempre
nuova nei lunghi secoli germoglia.
IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORI
Certo è che vive in questa terra occulto
qualche portentoe sìnel montedove
Roma quadrata germinò dal solco.
Pastori un tempo (luce ed ombra incerte
vi si spargean sotto la falce d'oro)
erano là coi rastri. Era la gloria
vanita già di Romaera d'Apollo
sparito il tempio. Tutto il sacro colle
tenean le infrante vecchie pietre ingombro.
Cespi d'acantonuove polle uscenti
da qualche ceppa d'albero che appena
sapea sé stessos'opponeano al piede.
Giacean rottami candidi di marmo
tra i rovi e i prunie sorrideano al suolo
i capitelli ai cardi ispidi e duri.
Muri con archicui copriva il musco
pendean crollantisi scoteano al vento
ad ogni crepa le parïetarie
come ciarpame pendulo a finestre
d'un abituro. Qua le acquate al tutto
finìan gli dei dipinti nella calce
qua le ventate stridule uno straccio
sempre rapìan da tende non più fisse.
Scabbia di pietrelue di sassi verdi
per tuttoed archi che teneano ancora
sol per l'abbraccio d'edere contorte.
Credean gl'ignari di veder spelonche
di giganti che dopo un'ardua rissa
con massi enormioracocendo l'ira
lontani e soli errassero sui monti.
IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROE
Ed i pastoricome un tempoin cerca
di predauna spelonca apronoun sasso
movendoimmensoe vedono nel fondo
della spelonca balenare un lume.
E quindi - era un sepolcro - gigantesche
membra d'un uomo vedonoche il petto
aveva aperto da una lunga piaga.
Stupor li prese di quel corpo cinto
d'armi cangiantidi quel capo ignoto
dentro l'irsuta gàlea. Ché tutte
l'arme egli aveafuor della spadae il petto
non gli cingeva il balteo d'orovario
di spesse borchie. Sull'ignoto capo
altovegliava un fuoco e gli sfiorava
l'antica piaga con l'assidua fiamma.
Un dei pastorisimile ad un Fauno
vide fra tanto impallidire il cielo
languire insiem le tenebre e le stelle.
LA LAMPADA INESTINGUIBILE
Ogni maceria gorgheggiava. I nidi
s'erano destidelle rondinelle
in fila sotto i capitelli neri.
E si vedean le macchiee tremolando
splendean le cime delle selvee i pini
alti sopra la vetta Pallantea.
Ed il pastore trasse fuori all'alba
la lampada e l'oppose al mattutino
vento. E il suo lume si sbattéma visse.
E vi soffiò con le selvaggie labbra
e la tuffò nell'acqua d'una pozza;
ma il lume visse. Ed e' la rese ardente
al suo sepolcro e l'appendé dov'era
e col suo masso chiuse la spelonca.
Dove ancor pende e raggia ancor la luce
su tegiovine eroe primoche fosti
di tanta gloria e tanta lotta e tanto
dolore e amore la primizia santa.
Son tre millenni ch'ella dal sepolcro
veglia su Roma con l'eterna luce.
A ROMA ETERNA
Spirito eternoeterna forzao Roma!
Dopo il gran sanguedopo l'oblìo lungo
e il fragor fiero e il pallido silenzio
e tanti crolli e tante fiamme accese
da tutti i ventitu col piè calcando
le tue ceneritu le me macerie
sempre più altacelebri il più grande
dei tuoi trionfi; ché la morte hai vinta.
Tu in faccia a tutti i popoli che a parte
chiamasti del tuo drittoora apparisci
nel primo fior di giovinezza ancora
meravigliosasimile a Pallante
difesa intorno dal fulgor dell'armi
e con la spada; e pende sopra il mondo
quella al cui lume accesero le genti
tutte il lor lumequella che noi rompe
l'ombra: o Roma possentela possente
tua più che il tempo lampada di vita.
INNO A TORINO
I
Toro divino ch'oltra due fiumane
giaci efiso nel gran murmureguardi
l'Eridanoche passa e che rimane:
macro pascesti sotto i baluardi
donde i Titani si sporgeanle spine
dei roviun tempoed il salistio e i cardi!
Ti distendevi immenso sul confine
delle montagnenella notteattento
tra il fioccar bianco e le tormente alpine;
facesti il nerbo di cento anni in cento
solo e rubestocaute le pupille
sbalzando al pianocorneggiando al vento
Amavi l'ombra; amavi le tranquille
acque e verzure; eppure avesti in sorte
la guerra eternadai mille anni ai mille.
Passavi i fiumi baldo allora e forte
cedevi passo passoe insanguinato
col dosso all'Alpi combattevi a morte.
Da due nemici preso a volte in guato
di qua di làvolgevi tu d'un salto
a questo e quello il fiero capo armato.
Alfine come statua di basalto
tu ti piantasti quadro sulle sponde
Ticineor pronto a rintuzzar l'assalto
or volto verso il pianooltre quell'onde
verdeove il tuo nemicoil tuo rivale
erbe non sue pasceva e non sue fronde:
il collo in arcoa fronte bassamale
pensandoe il sì nel fiero cuore e il no...
finché mugliastiraucotrionfale
lungo; e l'Italia tutta ne sonò.
II
Quale eri tu? Non l'ITALO tu forse
che per la grande terra della sera
trasse un fatale popoloe la corse
tutta col nome che tuttor non era?
Fuggìanoandandole paludi oscure
tinte d'un lividore di tramonti;
fuggìan le macchie vergini di scure
e il fuoco acceso notte e dì sui monti.
Sospesise temerese sperare
tendean l'orecchio ad altri gridi umani;
ma non s'udiva che scrosciare il mare
e rintronare lava di vulcani.
Emergeano cavalli-d'-acqua a torme
spruzzando pioggia dalle froge grosse.
Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme
chiedendo a séquella tribùche fosse.
Fendeva i boschi un calpestìo selvaggio
ed un fragor di grandi alberi infranti.
Pareva un cieco nembo; era il passaggio
làdi rinoceronti e d'elefanti.
E quando a notte era sparitaavvolta
d'aride foglie la raminga gente
a prender sonnotutta notte in volta
andava l'ombra del leon ruggente.
Ma sempre tusenza guardarti attorno
guidavio Toroi tuoi Taurini erranti
allor che i pièsempre più lentiun giorno
fermasti. T'era una palude avanti:
una palude gialla che tra l'ulva
lasciava sette cime già scoperte
di colli. La rapace aquila fulva
gridava all'acqua che stagnava inerte.
Ma nubi nere e sfavillìo di lava
uscian di notte dalle verte nude
dei montiintornoe sempre sussultava
la terra e balenava la palude.
Era lontana l'augurale aurora
che s'aspettava. E tucol tuo profondo
mugliocolei ch'era nascosta ancora
dall'acqua ed algala chiamavi al mondo.
Dopo gran tempo era per balzar fuori
Romanei dì che da te spunta il sole
Toro che spargi sulla terra i fiori
e in ciel t'impenni tra le stelle sole.
Roma era allora cinta dalla dia
vigile Terra. Tardoa poco a poco
continuastio Torola tua via
volgendo al tuono il capospessoe al fuoco.
Tutta così la terra senza nome
varcasti lungo il risonante mare
passando fiumi e valli oscure; e come
fosti alla fine del fatale andare;
la Primavera Sacra che dai solchi
natii fu data ai venti e alle venture
il tuo ramingo popoloi bifolchi
ITALOtuoilevando l'aste pure
dissero: Italia! Vollero che il breve
lido del mare fosse Italiafosse
di te. L'Etna alitavatra la neve
nuvolever' la verde Italiarosse.
Poi dove il Sole ha i pascolitu insieme
ai tuoi Taurisci a nuoto un dì passavi.
Ma sopravenne dalle prode estreme
l'Eroe più dio che gl'Immortali ignavi.
«Indietro!» dissee tese l'arco. Indietro
volgesti allorparando le tue torme
girando spesso attorno gli occhi tetro
ponendo i piedi sulle tue grandi orme.
Passandoquella ch'era un dì palude
vedesti arare e seminar già doma.
Era un pastore dalle membra nude
che seminava l'avvenir di Roma.
Aveva atteso tela primavera
tuala ma stella. Anche di lì cacciato
spingevi innanzi la tribù tua fiera
volgendo il capoed obbedendo al fato.
T'era alle spallesimigliante a notte
oscurate seguendo sempre al varco
una grande ombra in mezzo a nubi rotte
l'ombra di luicon nudo e teso l'arco.
Ma tu posastidove due fiumane
angolo fannocerto del destino.
Si sparse intorno per capanne e tane
il tuo tenace popolo Taurino.
Appiè dell'Alpi t'accostasti come
sopra una soglia. Il tuo viaggio vano
pensavi e il lido cui tu desti il nome
e l'avveniregrandealtolontano.
III
Itale verginiAlpi dal bel velo
biancotendenti all'altoche la veste
lasciate lungi dagli sguardi impuri
la vestesìdi prati e di foreste
cader lasciatema soltanto in cielo:
di quali voci allora e qual concento
empian le Madri i neri boschi cupi!
quali lontani portentosi auguri
gemean negli antrio dritte sulle rupi
gridavan alto tra la neve e il vento!
- Un re verrà (fermo è nel fato e fisso)
dalla sventura. Caccerà camosci
per l'Alpi sue. Sempre nel cuore il fischio
avrà dei ventisempre avrà gli scrosci
delle valanghe e l'anelante abisso.
Il re vedràtra nubi grigie e meste
un segno bianco e snuderà la spada.
Il re porrà tutto sé stesso al rischio
per liberare tutta la contrada
alzando al cielo il suo segno celeste.
Il re trarrà dalle grandi Alpi al piano
di nuovo il Toro; dal suo doppio fiume
lungo la terra della stellaal mare;
a riveder la prima Italia al lume
del pino acceso dal suo gran vulcano.
Questiquel Donnoil Regolo fatale.
Gl'Itali udrà gridare di dolore.
Gl'Itali lo vedranno cavalcare
con l'asta lunga. O Romaeglivittore
dell'elmo ferreo t'armeràche ha l'ale. -
Così le madri predicean nel santo
orror dei boschied ora al sacro fonte
sotterra dell'Eridano. Epur bassa
fosse la vocetrascorrea dal monte
Vesulo sino al mare Adriaco il canto.
Via via le ripe faceano eco; e in doppi
lunghi filari le sorelle fise
a rimirar l'acqua ch'eterna passa
tuttein udircrollavano improvvise
le loro chiome tremule di pioppi.
Abbrividiano come per un blando
soffio di venti. Un dolce suono usciva
dalle lor foglie ov'era un usignolo.
Così lunghesso la lunata riva
parcano andare in compagniacantando.
Faceano un solo inno d'amore i puri
virginei canti. E tucome una nave
bianca dall'acqua fluttuando a volo
cantavi ancor più forte e più soave
le mortio cignodegli eroi futuri.
Gli eroi nel bosco del perenne alloro
erano insieme assisi al sacro fonte
dell'Eridanoe tuttiredimita
già delle vitte candide la fronte
diceano l'inno della gloria in coro.
Anime pureanime senza sangue
erano ancoraancor sul limitare;
che alfin trovato il lume della vita
alla lor Patria dar la vitadare
tutto voleano alla lor Patria il sangue.
IV
Taurina gentesacra sin dagli anni
primi all'Italiao fuochi accesi in vetta
delle bianche Alpio saldi cuori e forti
o guardie eterne poste a vigilare
l'estremaimmensaardua trincèa di Roma!
L'aveala forza del maggior nemico
varcata già la cerchia di granito
le avea forzate l'ultime muraglie
sacre d'Italia e della sacra Roma.
Veniva già col vento e la tempesta
invisibile in mezzo alla tormenta.
Sul capo suo cadeva franto il cielo
che nascondea nel polverìo le turbe.
Per cime e valli andavae il suo cammino
dalle macerie eradel cieloingombro.
Ma egli andavacome in un gran sogno
semprenon mai volgendo gli occhiavanti.
Intorno a lui sonava il faticoso
nitrito de' cavallia cui le sabbie
auree nel caldo anelito del sole
rideano al cuore; avvezze a pascolare
sotto le paimele turrite mandre
barcollanti incedean degli elefanti.
Alle sue spalleun fragor grandecrolli
fugatumultoe scrosci di foreste
schiantate e grosso crepitar di fiamme.
Era un serpente enorme che con torve
spire seguivae i culti campi larga-
mente prostrava e sradicava i boschi
e con la coda distruggea le intere
città; che tutto con la bocca ardente
dava alle fiammeinsiemeed alla morte.
Era la vïolenta idra straniera
la sventura d'Italiache d'allora
avrebbe osato rompere i confini
sacriin eternoe sulla devastata
terra l'immane corpo arrotolare
e covar sopra ceneri di messi
e sopra roghi di città distrutte.
Allora in prima il mal serpente infranse
per farsi viale rupi ond'è costrutto
insino al cieloil Termine d'Italia;
Termine immenso che da mare a mare
col fondamento nel lor fondoincurva
sé stesso e sembraa Dio cadutoun arco.
Allora in prima con le spade in mano
guizzantivoi sbalzaste suTaurini
e sulla soglia della patria terra
gettaste il sanguesin d'allor col sangue
segnando il patto con il vostro fato.
Ma voi vedeste chile italiche Alpi
da questa Italia le ascendea Romano;
ma voi vedeste poi le italiche armi
oltre i confini propagar la pace
del giusto Lazio. In mezzo a voiTaurini
come nel marmo in cui la vita scorra
Cesare apparve. Nel paludamento
imperïale ei conducea l'Alauda
fulva le chiome: intorno a lui le scuri
nei fascie i pili della sua coorte.
Oppur liete parole egli intrecciava
coi fidi amicio nella molle cera
solchi imprimea col vomeregittando
in quella il seme del suo gran pensiero.
Ora i fasti romaniora le guerre
per terra e maree il mondo vintoein mezzo
ai suoi trionfi e alla sua paceRoma;
or meditava arguti versi e dolci
esili carmie si beava il cuore.
Qui mentre un dì cadea la neve a fiocchi
diconoentrò nella capanna trista
d'un re selvaggio. Largo il redi latte
giovò gl'ignotie loro appose i frusti
d'uno stambecco. E la coorte in tanto
motti avventava contro il re dei monti
gran cacciatoree l'un mostrava all'altro
quel re seduto sulla panca al fuoco
rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno
disse: «E' mi pare il dio Cernunnoil dio
della ricchezzacon le corna in capo.»
Cesaregravedisse allora: «Io primo
sia qui piuttosto che secondo in Roma!»
Regolo alpinotu balzasti allora
a un trattosudalla massiccia panca.
Di nera luce ardevano al Romano
gli occhi mortali; dalle tue pupille
splendeano ignude due cerulee spade.
Nel focolare arse più chiaro il fuoco
vampeggiòcrepitòfece faville.
E per le forrecon un'eco arcana
dell'infinitoa lungo mugliò una
rafficacome se parlasse il Tempo.
Allora avanti Cesare quel Gallo
irto di peli il labbrostettee parve
grande del paried esclamò: «L'augurio
accetto. Viva io qui tranquillo e pago
di questo regno poverocacciando
i cervierrando pei selvaggi monti
fin ch'io non possa essere il primo in Roma!»
Risero tuttisìma la lontana
posterità ventò sulla coorte
quasi alitando i secoli futuri.
Cesare quindi una città di guerra
fece ai Taurinie la munì di vallo
e di due torri ornò le porteecauto
dell'avvenirei veterani astati
pose in questo romano accampamento
forti coi forti. E la quadrangolare
città nel suolo si piantòsicura
per le sue pietre e più per i suoi cuori.
A destra poiper una grande porta
badava ad ogni vocead ogni suono
se udisse mai venire le coorti
se un clangorlungisi levasse al vento
frangesse il vento uno squillar di trombe
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi
della legionee Roma ritornasse:
o sedi tra gli stipiti rimasti
l'eterna fuga a contemplar degli anni
s'avesse alfine a ritornare a Roma.
Fuggiva il tempoe l'acqua dei due fiumi
fuggiva anch'ellain grande oblìo di tutto.
Dalle sue porte la città spiava
i quattro ventirivolgendo a un tratto
l'attento orecchio ognor dall'Alpi a Roma.
Ecco luccicar d'armi ampio e di schiere.
Ferro era tuttoche copria cavalli
e cavalierie tutto il piano era aspro
come di fulva ruggine di ferro.
- Romani voi? Partiti sì da Roma
ma non Romani. Dove i pili e i valli?
Che v'appiattate sotto il fosco ferro? -
Ed altre schiere ecco venir dall'Alpi
traboccando dall'alto arco dell'ampia
porta d'Italia. Per il ciel sereno
in faccia ad essi era una bianca croce.
Stupore ebbe le gentie il condottiere
- Prendi l'insegna della tua vittoria! -
udì. Vinsero in veroe le lor brevi
spade la via trovarono del sangue
sotto le squammein mezzo al vostro cielo
restòTauriniquella bianca croce
ora lucente nell'azzurroed ora
scialbae da un triste nimbo incoronata;
finché quel segno fu dalla vittoria
ripreso in manoquandoo Italiaforte
martireItaliadelle gentiorlavi
recando in alto la tua verde palma
la veste bianca di purpureo sangue.
E Roma intanto dalle sette cime
era crollatae dell'Esperia guasta
da ferro e fuoconulla più che l'ombra
eradel nome. E tempo corsee il nome
anche svanìcome in un rogo immenso
ultima brilla e muore una favilla.
Duca era allora dei Taurini un uomo
di quei barbariche nemici a Roma
avea la biondeggiante Elba mandati.
Il duca era partito per le liete
nozze del reper le fiorenti mense.
Appena giunto era nell'aula: un tuono
rimbombòsubitoed un lampo insieme
illuminò per l'aula le criniere
fulve e le barbe e le dense aste e l'azze
razzantie il re. Li scosse e impietrò tutti
ed il palagio con un lungo rombo
scrollò. - Del re breve la vita e il regno!
Duca Agilulfdiremo noi tra breve
te re. - Queste parole e' le nascose
nel cuoreil ducae ne ronzava il cuore
profondo. Ma non volsero molti anni:
furono vere. Néconcordia grida
sonore i duchi porsero a lui l'asta
a lui dicendo di regnar su loro;
ma la regina fu che il regno e un colmo
caliceprima a fior di labbro attinto
offerse a lui di rosso italo puro
vinoe gli disse: «Generose genti
come codesto vino vendemmiato
Re Agilulfsu colli che il sole ama
tu reggerai; ma l'arte dell'impero
è presso loroe tu da lor l'apprendi.»
Fecero quindi un tempio. Erasull'alba
dei secoliuno errante nel deserto.
«Fate le vie» gridava«e le spargete
di palme: l'Aspettato è per venire!»
Fecero a lui di marmo un tempioe dono
poseroin esso una corona d'oro
fulgidacui cingesse l'aspettato
il re d'Italia ch'era omai per via.
Ma l'oro puro intorno inanellato
era di ferroche già ferreo chiodo
fu della croce. - Oh! come tutto è vero!
Ma lo vedranno i secoli lontani.
Vero! Alla croce sarà reso il chiodo!
Vero! Al sovrano de' Taurini resa
sarà l'aurea corona. Egli su tutta
l'Italia re dominerà. L'Italia
renderà questi agli Itali e al destino.
Ma dopo lunghi secoli con molto
purpureo sanguema con fuoco e ferro! -
Allor col ferro impresero i Taurini
a perigliar la cara vitae sempre
alla futura patria addimostrarsi
in disventura ed in povertàforti.
E sì pareano immemori del fato
e pur del nome e dei costumi antichi
e del linguaggio che fu già di Roma.
Né più le genti capo avean: l'augusta
città fatta straniera: e valli e monti
dell'armi ostili eran per tutto ingombri.
E tramontata era la sacra insegna
né v'era alcuno che levarla al cielo
potesse ancora: Donno era lontano;
esilïato Donno era dalle Alpi.
Presso i due fiumicome corpo morto
come travolto da una gran valanga
Toro progenitoreeri prostrato:
quandoTesta di ferrotutto ferro
alto levandocome alfierla spada
puntando ai fianchi del destrier gli sproni
egli tornò. Tornava dall'esilio:
dalla vittoria. E il popolo Taurino
gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi!
Vero il tuo nome dice Emanuele!»
Egli ristette e il suo cavallo immane
fermòtrasse le redinie nascose
nella guaina la sua grande spada.
Non fosti tutu stessochetre volte
volti cent'annila levasti al sole?
Grida di mortegrida di dolore
in ogni tempod'ogni parteal cuore
giungeano ardenti. Quel rapace drago
strisciava per la terra della sera
tutto abbattendoe il popolo le ingiuste
verghe provava e le superbe scuri
dei re tiranni. Sìma tu le udisti
quelle infinite grida di dolore
la grande spada tud'un dìsnudasti
la croce bianca tud'un dìlevasti.
Oltra Ticinosommovesti all'armi
tutte le genti e le guidasti a guerra
ch'è santa e piase libera e redime.
Poi col tuo nome mille eroi due navi
salgonoe vanno all'isola che porta
chiare di deidi semideile traccie.
Rossa la veste dei remigatori
divini; capo era il divino Ulisse.
E tu combatti ancora e sempre. Alfine
re dell'Italia tutta imponi al capo
il ferro e l'oro della sua corona.
La croce alfine segno di vittoria
splendé dal cielo sulla terra verde
ch'ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco.
Ed a nessuno e in nulla mai secondo
piccolo alpino re selvaggioa Roma
stai grandee resti eternamente a Roma.
V
Accampamento fatto a piè del monte
già dal grifagno Cesare ai futuri
figli d'Italiao tempio dei vessilli
o ara donde il Console gli augùri
prendevaaugusticol nemico a fronte!
Per guerrequi di secoli lontani
erano poste le aquile dell'oro;
qui ripetea la bùccina i suoi squilli
breviche un coro ricevea canoro
di trombe e il busso dei timpani vani.
Qui sempre il suolo trito di stridenti
plaustriqui di concordi ferree péste.
Erano le coorti e le legioni.
Qui si guardava la purpurea veste
da darsull'alba della pugnaai venti.
Qui sempre avvenne di mirar le squadre
dei fluttuanti veliti e il tumulto
delle torme dai quadruplici tuoni;
qui sempre alcun triariocome sculto
star tra' novelli: - Narra dunqueo padre! -
Perché accampato in questo accampamento
era un ultimo esercito romano.
La sua milizia era infinita e dura.
Esso tra il monte s'attendava e il piano
fedele ad un antico giuramento.
Scórsero gli anni e i secoli. Ed armato
esso aspettava di ritornarquando
fosse chiamatosotto quelle mura.
Aspettò qui per secoliil comando;
ma Roma ve l'avea dimenticato.
Bianchi frattantosotto il muschio e i pruni
marmi e colonne e lapidigrandi orme
della gran madrearchi e sepolcri infranti
vedeano intornoe dure austere forme
stele di primipili e di tribuni.
Vedean già rotti ancor salire al monte
archi che l'acque conduceano al basso.
Parean lontane file di giganti
d'ardui gigantii quali passo passo
salìan con l'urneun dopo l'altroal fonte.
E custodìanonel domar la rude
terral'antica arte e l'antico onore
dei forti aratri e delle industri falci.
Ondeggia il campo di frumento in fiore
di verdi steli ondeggia la palude!
Verdii bei campiverdile canore
acquema più sorridono i giocondi
clivi con l'ampio serpeggiar dei tralci
donde i purpurei calici ed i biondi
che dànno gioia o dànno forza al cuore.
L'un vinoaustero per gli austeried abbia
lode dai forti. L'altro poi s'effonde
aureo nell'ampio calice iridato
col tremolante mormorio dell'onde
cuivastasucchianel tornarla sabbia.
Ma l'uno e l'altroè bellotra i nepoti
e i dolci amicinella patria terra
bere in convito parcoove l'armato
deposte l'armi narri della guerra
e sciolgasalvo e di sé pagoi voti.
VI
Salveo città forte di vallo e fosso!
salveo bivacco italico di scelte
anime! o campo che non fu mai mosso!
o insegne mai dal loro suolo svelte!
Te la dea Roma disegnò quadrata
qual essa fupremendo il solco a fondo
col grande aratro dalla prua ferrata
con cui fendé fecondatrice il mondo.
Come legione ferrea che si schiera
con pari filedritte e quadreinvade
il vasto campo; così tuguerriera
con le tue case e con le tue contrade.
In te milizia è tutto; anche l'austere
voci e parole e l'anime dei tuoi;
chese squilli la tromba del dovere
corrono a morteumili ed alti eroi.
Népur sempre crescendo in ogni parte
oblìo ti prese del mensor di Roma
o fida al primo cardineed all'arte
ubbidïentedell'antica groma.
Ma le diritte nuove strade intorno
son or tenute da coorti nuove
e un fragor d'armi nuovoe notte e giorno
l'immenso accampamento empie e sommuove.
Sono telai dalle infinite spole
dagli infiniti pettini sonanti;
sono gran magli che sulla gran mole
del rosso ferro piombano incessanti.
Esce il vapor con fischi di tempesta.
Ogni metallo intenerisce e strugge.
Morsa da mille denti ogni foresta
si fende e scindee intanto freme e fugge.
Fiumi lontani cheda un alto balzo
a valle giù precipitano bianchi
di schiumaun uom divinonel rimbalzo
loroli prese e li serrò nei fianchi.
Così cavalli come primaa schiere
ubbidïentili guidò dall'erte
al pianodando ai vento le criniere
spruzzando l'acqua dalle froge aperte.
Mentre là stanno tra ghiacciaitra foci
crinelontani dal rumor del volgo;
li chiama un cennoun lieve urtoe veloci
scendono più del solco della folgore...
ove con morsi e redini li frena
l'artiereo caccia con la sferza al segno;
l'artier che intento a un canto di sirena
domacon loroil ferroil marmoil legno.
Non solo. I chicchi ai bimbi e' foggiaecome
pegni d'amorgià prima li accarezza;
ciò che ti fa non nota sol per nome
ma dolce ancora d'intima dolcezza
ad ogni madreo città buonao pia
madre su tutteche con dolce affetto
la prole tuaper tanta ch'ella sia
tutta la stringi e te la scaldi al petto.
A lei prepari i bei giardini in fiore
le scuole ornatel'agile palestra:
così ti mutinon mutando amore
da dolce madrein dolce e pia maestra.
O Iulia Augusta armipotente! In pace
non sembri un campo cinto d'armi attorno;
un nido sembriun gran nido loquace
di mille cuori salutanti il giorno;
schiere bensìma parvolevestite
di bianco e rosaaltre e le stesse ogni anno:
né paga tu di tante proprie vite
altre ne cerchi che pur me saranno.
O Grande Madrehai del tuo grande cuore
dato ai fanciullidato alle fanciulle
o sotto volte splendide e sonore
o sotto travi di capanne brulle.
A tuttia tutte! Sia dolore o gioia
la vita lorospremi a lor quel pianto
che fa non che l'un cresca e l'altra muoia:
fa pia la gioia ed il dolor fa santo.
Simili quindiormai stretti ad un patto
ad una mensa siedono imbandita
del pane stesso. O festa del riscatto
sul limitar del tempio e della vita!
O sacrifizio onde ogni dì t'elevi
AmorPietàPace albeggiantea volo!
O fiori umanitremoli di lievi
petalio fiori che ne fate un solo!
Viene scorrendo sulle penneappena
battutevienelievemente anelo
lo stormo e un inno per la via serena
cantache pare un astro nuovo in cielo...
VII
E voi cantate - ché la madre Italia
non altre voci ode al cuor suo più care -
cantate dunque: Italia! Italia! Italia!
Gracili voci: ma da queste pare
balzar l'eco di quelle dei grandi avi:
marciecomandicarichefanfare.
Diteo fanciulli e vergini soavi
l'Italia ch'ora è su lontane sponde:
la Patria: itale tendeitale navi.
Forse il gabbier ch'esplora ciò che asconde
la notte e il fluttoin mezzo al ciel sospeso
sopra l'oscuro murmure dell'onde;
forse il vegliante bersagliercheteso
l'Occhio nel buiotra' palmizi esplora
un guizzo spento prima ancor che acceso;
alzano il capo a quel trillar d'aurora
levano gli occhi all'improvvisa romba
all'improvvisa nuvola canora.
- Era sepolta; e il nome sulla tomba
era la lode simile ad oltraggio:
ma balzò sucome ad un suon di tromba.
Balzòsbocciòcome un fiorir di maggio.
Eccosublime con la spada in mano
al mondo chiede il suo grande retaggio.
Ogni straniero ella cacciò lontano
ogni barbariegli altrui mali e i suoi
e il suo destino strinse a séromano. -
Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinelladànno il «Chi va là?».
- Quella ch'è dietro voich'è innanzi voi
ch'è sopra voi: l'Italiaeroiche va! -